lunedì 15 marzo 2010

PHOTARTS ha fotografato per voi Claudio Santamaria


Buio... rumore di pioggia incessante... una scenografia pressoché spoglia, allestita solo con sabbia, sassi e qualche pietra qua e là. Luce... c'è un uomo da solo in scena, vestito solo con un paio di pantaloni e un vecchio cappotto: è Claudio Santamaria, in un ruolo in cui non siamo abituati davvero a vederlo. Il suo nome si associa a personaggi cinematografici, come Dandi di "Romanzo criminale" o Rino Gaetano dell'omonima fiction televisiva, o da ultimo a Paolo, il depresso e difficile personaggio dell'ultimo film di Gabriele Muccino tutt'ora nelle sale cinematografiche. In questa occasione si cimenta addirittura in un monologo, difficilissima prova d'attore, superandola a pieni voti.

L'opera rappresentata è "La notte poco prima della foresta" di Bernard-Marie Koltes con la regia del colombiano Diego Puerta Lopez. Lo spettacolo è, appunto, un monologo senza respiro, è un'unica frase, un fiume dirompente di parole; è la storia di un uomo che parla, urla e si sfoga con un ipotetico sconosciuto, abbordato per strada in una notte di solitudine, chiedendo ospitalità per "una notte, per una sola notte o per una parte di questa notte". La notte è buia, il protagonista si ritrova sotto una pioggia incessante che annebbia i contorni e che rende spasmodica e convulsa la sequenza dei ricordi. "È un testo meraviglioso - racconta Claudio Santamaria - appena l'ho letto me ne sono innamorato, proprio perché ha una scrittura contemporanea molto forte, e mi ha permesso di esplorare tutte le corde, sia emotive che fisiche, da tirare e suonare forte". L'attore dimostra, in questi 75 minuti senza pausa, le sue ottime doti recitative, lasciandosi ascoltare ed emozionandoci per questa incredibile forza che esprime, fisica e interpretativa, lasciandoci davvero senza parole, facendo trasparire le emozioni forti di questo personaggio, a volte rabbioso contro quello che lui giudica "il nemico", che lotta e urla contro le difficoltà per chi si sente straniero, diverso ed esiliato in una terra sconosciuta, ma anche trasmettendo dolcezza per il ricordo di una mamma ormai lontana. Si perde, in questa buia notte di vagabondaggio, alla ricerca ossessiva di compagnia e di una camera, facendo fluire parole su parole senza punteggiatura, senza senso a volte, ma cariche di rabbia e dolore.

Santamaria confessa di essere tornato con grande piacere sulle scene teatrali dopo sei anni di assenza (l'ultimo spettacolo era stato "Sogno di una notte di mezza estate" di Shakespeare), di non aver mai dimenticato quella che lui stesso definisce la sua prima grande passione, e di aver quasi bisogno di questo rapporto vivo col pubblico, come se fosse un rituale del quale non può fare a meno.

Racconta anche quanto è stato difficile preparare questo pezzo: "È un pezzo duro, che non ti permette di decidere nulla, bisogna solo buttarsi nel testo, facendolo entrare nel sangue, nelle ossa, nei muscoli, per cercare di farlo proprio e interpretarlo al meglio", ma proprio per questo, dice, sarà diverso ogni sera.

La foresta del titolo è quella ipotetica del Nicaragua, dove c'è un generale con un piccolo esercito che la circonda e che spara a qualsiasi cosa si muova.

Ma la foresta, nel suo pieno significato simbolico, altro non è che la fine, la morte, intesa come liberazione da questo mondo tragico e sofferente che vive intorno al nostro protagonista, nella mente, nel corpo, nei suoi gesti e nelle sue parole, rese davvero bene da questo bravo attore.

Articolo di Monica Cavallin
Foto di Fabio Gatto

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