sabato 29 settembre 2012

DIRECTOR'S CUT: OLIVER STONE

© Simona Gemelli

Oliver Stone nasce  a New York il 15 settembre 1946, figlio dell'ebraico Lou Silverstein, agente di borsa a Wall Street, e di Jacqueline Goddet una casalinga francese cattolica.
Il cinema non è entrato subito a far parte della sua vita se non per passione. Oliver lavora come tassista poi si iscrive a Yale ma abbandona l'università per imbarcarsi su navi mercantili dirette in Vietnam in veste di insegnante. Si arruola come volontario e combatte nella guerra in Vietnam dal 1967 al 1968. Rimasto ferito due volte in battaglia, si guadagna la medaglia al vaore.
Tornato a casa, influenzato dalla Nouvelle Vague e sotto la direzione di un maestro come Martin Scorsese, ha proseguito gli studi laureandosi a New York presso la University Film School.
Inizia a lavorare come regista nel 1971 scrivendo e dirigendo il cortometraggio sperimentale 'Last Year in Vietnam'. Nel 1978 si occupa della sceneggiatura del film 'Fuga di mezzanotte'.
L'anno 1986 sarà l'anno della svolta per Oliver Stone che riesce a sfondare grazie al racconto della vicenda Richard Boyle, ostinato reporter di 'Salvador'. Nello stesso anno, ottiene i massimi riconoscimenti e la consacrazione definitiva con il film 'Platoon'.Seguiranno numerosi film di grande successo come 'Nato il 4 luglio' con Tom Cruise nel 1989. Stone si conferma un cineasta ricercato e all'avanguardia, la caratteristica distintiva dei suoi film consiste nell'uso di una moltitudine di cineprese e formati, dal VHS alle pellicole da 8mm a 70mm e in uno stile aggressivo e polemico.
Tra il 1987 e il 1991, gira il corrotto 'Wall Street' ispirandosi al padre interpretato da un superbo Michael Douglas, la spettacolare opera-inchiesta 'JFK - Un caso ancora aperto', nonchè la psichedelica biografia di Jim Morrison in 'The Doors', in cui un giovane Val Kilmer interpreta in modo stupefacente il ruolo del mito del rock.Per il suo lavoro di regista, sceneggiatore e produttore, ha ricevuto 11 candidature all'Oscar, vincendo 3 volte con 'Fuga di mezzanotte' come sceneggiatore, 'Platoon' e 'Nato il 4 luglio' come regista. Di contro è stato anche candidato ai Razzie Awards nel 2004 e come peggior regista per 'Alexander'.
Insomma si può amare alla follia, oppure, detestare a dismisura ma lui resta sempre Oliver Stone, il personaggio più contestato e discusso di Hollywood.



"La belva" di John Travolta

© Simona Gemelli                                       John Travolta Oggi


John Travolta 1977


E' l'emblema di una generazione, conosciuto dal grande pubblico con un film che ha incassato più di trecentocinquanta milioni di dollari, un fenomeno cinematografico che ha dato il via ad una serie infinita di film ispirati alla musica e alla danza.
Lui è John Travolta, 51 film all'attivo in 58 anni di vita, sex symbol dagli occhi color ghiaccio e dal sorriso inconfondibile.
Il suo ultimo film è oggi nelle sale: "Le Belve" di Oliver Stone.
Tony Manero, il ragazzo di origini italiane che vive in un sobborgo di New York, si trasforma dopo 35 anni in un viscido agente della DEA a caccia di cartelli della droga messicani.
E' interessante lo sviluppo di una carriera intensa come la sua che dal ballerino della febbre del Sabato sera e di Grease, passa all'intrigante 'American Gigolò', al romantico 'Ufficiale e gentiluomo', continuando con lo scanzonato padre della saga di 'Senti chi parla' e trasformandosi nell'intoccabile Vincent Vega, storico personaggio del film cult 'Pulp Fiction'.
Una vita piena di emozioni, salti, eventi, fatti anche tragici come la morte del figlio sedicenne. E ancora la sua a appartenenza a Scientology che ha fatto molto discutere. 
Tutti tasselli di un personaggio discusso, amato, che rappresenta un vero pilastro della storia del cinema mondiale.

venerdì 28 settembre 2012

Le Belve di Oliver Stone

© Simona Gemelli
«È una storia di sopravvivenza - afferma il regista Oliver Stone, a Roma per il lancio del suo ultimo film 'Le Belve' tratto dal romanzo omonimo di Don Winslow -. Tutti fanno il loro gioco, ma a un certo punto si ritrovano costretti a compiere un salto in un’altra dimensione. Da 40 anni gli americani devono fare i conti con il problema della droga, spesso, però, si fa confusione nel decidere chi è il nemico, i cattivi non sono quelli che la usano, ma quelli che la spacciano». 
Personaggio chiave del film il sempre amato John Travolta che con il suo riconoscibile fare sarcastico afferma: «Il potere del cartello messicano della droga è illimitato e, a differenza della mafia, non risparmia nemmeno donne e bambini. Le guerre sono sempre alimentate dal denaro, questo è l’aspetto selvaggio della società in cui viviamo. E quando c’è una crisi economica tutto peggiora, perchè si pensa che i conflitti possano risolvere la situazione, e invece non è affatto così». 
Protagonista femminile la bella Salma Hayek che lancia un messaggio forte e deciso: «Non conosco una soluzione al problema del traffico di stupefacenti, ma spero che il film serva anche a far capire che ogni volta che si acquista droga, si partecipa a uno spargimento di sangue. Più che preoccuparci della violenza al cinema , dovremmo tenere gli occhi ben aperti e cercare di dare il nostro piccolo contributo. Se non riusciamo a capire che cosa sia utile per la comunità, tutti noi possiamo diventare selvaggi». Fieramente messicana Hayek spiega di conoscere perfettamente il fenomeno delle donne manager nel mondo del narcotraffico: «Ce ne sono tante, anche con ruoli dominanti, in genere sono diverse dai maschi perchè non sono influenzate dall’ego e tendono a evitare le guerre».
Che dire... "Le Belve si nascondono tra noi".

giovedì 13 settembre 2012

ANTEPRIME CINEMA

BAD 25, Spike lee racconta la leggenda al Festival di Venezia 2012 per Photarts
 
Alle cose che non sappiamo spiegare, diamo spesso il nome “miracolo”. Le cose che sembra impossibile siano accadute davvero, diventano spesso “leggende”. Attorno a pochi uomini si è creata la leggenda; attorno a pochissimi si è diffusa l'aurea del “superuomo”.
Michael Jackson era fra questi. Assieme all'uomo, il dio: non c'è nessuno che più di lui abbia raccolto attorno a sé la religiosa ammirazione di così tanta parte di umanità. Attorno a Jackson il culto, l'idolo, il limite dichiarato impossibile da superare. Non stupiscono dunque le ombre. Come in ogni religione l'integralismo è il passo falso che supera quel confine sottile fra devozione e sconvolgimento del verbo, tanto da ritrovarsi improvvisamente avvolti nelle tenebre peggiori anziché la luce, così su Michael sono andati sfumando i confini tra finzione e realtà. Un'umanità infine persa dietro l'esigenza di protezione, l'ossessione per la perfezione e la paura che l'ultima goccia d'intimità fosse risucchiata in quel vortice di attenzioni che l'uomo solo -non il dio- non poteva certo reggere senza deteriorarsi poco a poco da dentro.
Così, quando la Sony Records propone a Spike Lee (guarda caso, un altro che viaggia al confine con l'immortalità) di celebrare i 25 anni di “Bad”, l'album della “prova del nove”, dove Michael avrebbe dovuto confermare di essere il migliore riconfermando il suo talento dopo un diamante come “Thriller”, è chiaro che questa sarebbe stato probabilmente la migliore occasione per raccontare Jackson. Se c'era un atto di amore che l'amico e ammiratore (da sempre, dai Jackson Five) poteva mettere in atto, era certamente quello di trascurare la parte “umana” di Michael Jackson e lasciare che il “chi era” venisse narrato semplicemente attraverso le sue opere, il vero specchio dell'anima della leggenda. Così Spike Lee presenta alla 69esima edizione del Festival di Venezia un travolgente film-documentario, che sfida all'impassibilità, sfida a rimanere inermi sotto l'uragano che solo Michael Jackson era in grado di scatenare, avvolto da quell'energia che lo possedeva quando saliva sul palco, cancellando di colpo tutto il sudore, il dolore, la pressione che esercitava continuamente su sé stesso, in quell'estenuante ricerca della perfezione a tutti i costi. Non si accenna neanche ad un Michael Jackson privato (in fondo, è mai stato intimamente protetta la sua esistenza?  Ha mai davvero vissuto una dimensione privata?). Tutto è dichiarato, intensamente testimoniato, dal suo lavoro: i dietro le quinte, le collaborazioni, le realizzazioni di quei “micro film” che hanno contribuito a farne il re indiscusso del pop; le testimonianze di chi ha lavorato con lui, chi ne ha condiviso la fatica e il successo; di tanti amici e collaboratori: da Mariah Carey a Quincy Jones, da Sheryl Crow a Martin Scorsese.
“Bad 25” è molto più di quanto non possa essere descritto a parole, come Michael Jackson d'altronde.
 
 
 

ANTEPRIMA CINEMA

THE MASTER, dal Festival del Cinema di venezia per Photarts
 
Paul Thomas Anderson è senza dubbio uno dei più importanti produttori cinematografici degli ultimi anni. Uno di quei registi che non ha mai sbagliato un colpo (ricordate “Boogie Night”? O “Magnolia”?) con uno stile riconoscibile che la critica ha sempre apprezzato. Per questo se gli applausi non sono fragorosi o in sala qualcuno sbadiglia più del solito subito si parla di fallimento, di colpo mancato, della “decadenza di uno dei registi americani più importanti degli ultimi tempi”. Nulla di tutto questo.
Certo, “The Master” non è sicuramente il film epico di Anderson, ma non si può dire che il pubblico e la critica non siano stati conquistati. Non come altri lavori del regista, si deduce, ma comunque già si parla di Leone d’Oro e di Coppa Volpi per la migliore interpretazione.
I protagonisti del film, presentato alla 69esima Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia, sono Philip Seymour Hoffman (attore amato da Anderson e presente spesso nei suoi film) e Joaquin Phoenix.
Siamo nell’America degli anni ’50, Freddie Quell (Phoenix) è un reduce di guerra che cerca di reinserirsi nella società, cosa non facile dato il carattere ribelle, che tra problematiche varie incontra un carismatico leader di una setta religiosa (Hoffman) con il quale vivrà un rapporto viscerale e del quale diventerà allievo. Molti i rumors nati, in primis il legame, secondo alcuni, con “Scientology” (associazione religiosa, filosofia religiosa o setta, che dir si voglia, fondata da L. Ron Hubbard nel 1954) anche se il regista ha detto chiaramente che il suo scopo principale, come in molti dei suoi lavori, è stato quello di raccontare il forte e passionale rapporto tra due persone, che nella seconda parte del film sfocia in un erotismo sottile che rende ancor più l’idea.
Un film che per molti rimane ancora da inquadrare, come anche uno degli attori che ne fa parte: Joaquin Phoenix, il quale durante la conferenza stampa ha fatto parlare di sé e di sicuro non in maniera positiva. Hanno fatto discutere, infatti, i suoi modi poco eleganti, la faccia visibilmente annoiata, le sigarette fumate nonostante il divieto e l’abbandono molteplici volte della conferenza; senza dimenticare i commenti legati al film: “Non penso che Paul mi abbia dato libertà, non so da dove provengano le nevrosi dei personaggi e neppure me ne importa”. Che Joaquin non si sia trovato bene sul set? Probabilmente non lo si potrà mai sapere, ma per avere una visione completa ed oggettiva del film, in Italia, dobbiamo aspettare l’11 gennaio, quando “The Master” uscirà nelle nostre sale distribuito da Lucky Red.
 

ANTEPRIMA CINEMA

THE ICEMAN, dal festival del Cinema di Venezia per Photarts
 
Una storia vera, un killer, centinaia di morti e ghiaccio, quello dell’animo.
“The Iceman” era tra i film più attesi di questa 69esima edizione della Mostra di Arte cinematografica, e non ha deluso le aspettative.
Un cast stellare, che si compone di attori del calibro di Michael Shannon, Winona Ryder, Ray Liotta e James Franco, per una storia vera capace di gelare le vene. Ariel Vromen ne è il regista, che dopo due film di non eccezionale successo (“RX” e “Danika”), afferma così la sua bravura.
L’inizio del film lo fa sembrare la classica storia d’amore: c’è un lui, una lei, si incontrano e si piacciono. Due ragazzi normali dove gli atteggiamenti non sempre corrispondono ai sentimenti. Lui sembra distaccato, pur non avendo occhi per lei, che dal suo canto, pur ricambiando, si mostra schiva.
Richard e Deborah però si amano, si sposano e hanno due figlie. Eppure lo sguardo di Richard Kuklinski, non mente.
C’è qualcosa di distaccato, di “freddo”, un dolore che lacera la sua anima, che non gli da pace e che ben presto prenderà il sopravvento. Un desiderio di vendetta, che decide di assecondare quando viene assoldato da da Roy DeMeo, capo di una piccola ma pericolosa famiglia mafiosa, come sicario.
Richard Kuklinski uccide, ecco cosa fa. Lo stesso distacco che c’era all’inizio della sua storia d’amore, nel mostrare i suoi sentimenti, lo ritroviamo nei suoi omicidi. Uccide senza pietà. Una doppia vita ben delineata che fa emergere tutto il suo conflitto interiore. Da un lato amorevole, affettuoso e premuroso con la moglie Deborah e le figlie, dall’altra assassino.
E’ un’ambivalenza struggente che viene marcata sempre più durante il film.
La figura della famiglia diventa così la lettura per una via di fuga. Richard sogna una casa lontana da li, come sua moglie. Condividono il sogno di una vita nuova, dove per lui, il cambiamento è il cambiamento dell’anima.
Eppure nella storia prevale la biografia, la storia è reale e si “piega” alla cronaca. Nessun pentimento, nessuna redenzione. Solo dolore.
“The Iceman” è un film crudo, violento, forte nelle immagini e nelle intenzioni. Colpisce il dramma psicologico che inevitabilmente si cela dietro le grandi tragedie, e coinvolge.
A renderlo un ottimo film, la partecipazione di attori straordinari.
Michael Shannon è un magistrale Richard Kuklinski, spietato, glaciale, senza un attimo di esitazione, che nel descrivere il suo personaggio parla di una "personalità dissociata, derivante dall'infanzia fatta di violenza e soprusi: quando il dolore è così profondo che non puoi sopportarlo, trovi un mezzo per annullare te stesso". Perfetta anche Winona Ryder, che mostra una donna fragile, perfettamente complementare al protagonista. "E' una donna che sposta la polvere sotto le coperte, pur di non vedere – afferma l’attrice - Così ho seguito il suo esempio: ho strappato via le pagine del copione che descrivevano i misfatti del marito, per calarmi ancora meglio nei panni di chi non sapeva, e non voleva sapere".
“The Iceman” ha tutti gli elementi per essere un buon film, un thriller avvincente che accoglierà numerosi consensi

ANTEPRIME CINEMA

THE RECLUTANT, dal Festival del Cinema di Venezia per Photarts
 
Dopo il successo di "Monsoon Wedding", che aveva vinto il Leone d'oro nel 2001, la regista indiana Mira Nair torna con un thriller politico, "The Reluctant Fundamentalist". Tratta dal celebre romanzo di Mohsin Hamid, tradotto in 25 lingue, la pellicola racconta la storia di un giovane pakistano, interpretato da Riz Ahmed, che fino a quel maledetto 11 settembre 2001, aveva davanti a se un brillante futuro da analista finanziario a Wall Street. Poi da quel giorno, la sua vita, come quella di tanti altri  americani, è cambiata per sempre. Ma il suo dolore non si è limitato alla tragedia che ha sconvolto il mondo del XX secolo; quella stessa America che gli aveva dato un lavoro e una vita migliore, lo ripudia, lo comincia a guardare con sospetto, continuando a perseguitarlo anche quando il giovane è costretto a far ritorno in Pakistan. Fino a quel momento la vita gli aveva sempre sorriso: un buon lavoro, l'amore per la bella e maledetta Erica, artista tormentata interpretata da una bruna Kate Hudson. Poi, la catastrofe. E niente sarà più come prima. Il film, che ha aperto la 69esima edizione della Mostra del Cinema di Venezia, è fuori concorso, ma ha ricevuto numerosi consensi ed applausi dopo le oltre due ore di programmazione.
A presentare il film al Lido di Venezia sono intervenuti la regista, Kate Hudson (tornata biondissima) e Liev Schreiber, che interpreta nel film il giornalista Bobby.
"The Reluctant Fundamentalist" è un richiamo alla globalizzazione e un'accusa forte contro tutti quei pregiudizi che ancora continuano a sopravvivere nel mondo occidentale. D'altronde Mira Nair è attenta a questo tipo di questioni sociali fin dall'inizio della sua carriera dietro la cinepresa; come lei stessa ha sottolineato: "Il vero Pakistan non è conosciuto da nessuno al mondo" e sostiene che bisognerebbe: "superare la miopia che separa oggi l'Occidente dall'Oriente". Proprio pochi giorni prima di quell'evento epocale la regista aveva vinto il Leone d'Oro, vittoria rovinata da quell'imminente tragedia; ora torna a Venezia per ricordare quei giorni terribili e per far sì che non vengano dimenticati.
 
 

ANTEPRIME CINEMA PHOTARTS

TANGO LIBRE dal Festival del cinema di Venezia per Photarts

 
Amore, passione e rigore. Cosa c’è di più intenso di un tango? Solo un amore impossibile, fatto di sguardi, di sensazioni, di contrasti.
Una donna e tre uomini, questa è la storia che si consuma dietro “Tango Libre”, il nuovo film di  Frederic Fonteyne, presentato, nella sezione Orizzonti, alla 69esima Mostra Internazionale d’Arte cinematografica di Venezia.
Il regista belga chiude così una trilogia di film dedicati interamente all’amore, iniziata con “Una relazione privata” (presentato in concorso nel 1999) e “La donna di Gilles”; film dove la forza dei sentimenti svela gli animi.
JC (François Damiens) è una guardia carceriera, con una vita piatta, senza particolari entusiasmi, ma con un’insospettabile passione per il tango, concetto di seduzione per eccellenza, nel quale sfoga la sua vita di insoddisfazione e monotonia. Durante una delle lezioni serali, incontra e si ritrova per caso a ballare con Alice (Anne Paulicevich, anche co-sceneggiatrice), che rivedrà anche il giorno dopo presso la sala visita della prigione dove lavora.
La donna è infatti li  per ben due uomini: il marito Fernand (Sergi Lopez)  e l’amante Dominic (Jan Hamenecker), amici da sempre, finiti in prigione dopo aver ucciso una guardia durante un assalto ad un portavalori.
Questa la trama di un film ben scritto e ben recitato.
“Tango Libre” non è la classica storia di un menage a trois (che in questo caso sarebbe a quattro…), è una storia imprevedibile, che mostra bene le sue carte, sorprendente ed entusiasmante.
L’intreccio è drammatico, a tratti tragicomico; una storia dove altro protagonista indiscusso è il ballo, il tango, che fa da sottotesto alla storia , svelandone i significati più profondi.
La passione, il desiderio, il tradimento. Tutti elementi che concorrono a delineare una storia che mostra la fragilità umana davanti ai sentimenti, in un intreccio dove ad averla vinta è sempre l’amore.
Ballo e amore, una semplice accoppiata capace di dar vita ai più tormentati rapporti.

I GRANDI FOTOGRAFI

HENRY CARTIER-BRESSON



 
Henri Cartier-Bresson, uno tra i più convinti puristi della fotografia è nato il 22 agosto 1908 a Chanteloup, 30 chilometri ad est di Parigi, da una famiglia alto borghese amica delle arti. Inizialmente si interessa solo di pittura (grazie soprattutto all'influenza di suo zio, artista affermato, che all'epoca considerava un po' come un padre spirituale), e diventa allievo di Jaques-Emile Blanche e di André Lhote, frequenta i surrealisti e Triade, il grande editore.
L'ansia che rode Cartier-Bresson in questo suo viaggio fra le immagini del mondo lo porta ad una curiosità insaziabile, incompatibile con l'ambiente borghese che lo circonda, di cui non tollera l'immobilismo e la chiusura, la piccolezza degli orizzonti. Nel 1935 negli USA inizia a lavorare per il cinema con Paul Strand; tiene nel 1932 la sua prima mostra nella galleria Julien Levy.



Tornato in Francia continua per qualche tempo a lavorare nel cinema con Jean Renoir e Jaques Becker, ma nel 1933 un viaggio in Spagna gli offre l'occasione per realizzare le sue prime grandi fotografie di reportage.
Ed è soprattutto nel reportage che Cartier-Bresson mette in pratica tutta la sua abilità e ha modo di applicare la sua filosofia del "momento decisivo": una strada che lo porterà ad essere facilmente riconoscibile, un marchio di fabbrica che lo distanzia mille miglia dalle confezioni di immagini celebri e costruite.




Ormai è diventato un fotografo importante. Catturato nel 1940 dai tedeschi, dopo 35 mesi di prigionia e due tentate fughe, riesce a evadere dal campo e fa ritorno in Francia nel 1943, a Parigi, dove ne fotografa la liberazione.
Qui entra a far parte dell'MNPGD, un movimento clandestino che si occupa di organizzare l'assistenza per prigionieri di guerra evasi e ricercati.




Finita la guerra ritorna al cinema e dirige il film "Le Retour". Negli anni 1946-47 è negli Stati Uniti, dove fotografa soprattutto per Harper's Bazaar.
Nel 1947 al Museum of Modern Art di New York viene allestita, a sua insaputa, una mostra "postuma"; si era infatti diffusa la notizia che fosse morto durante la guerra.
Nel 1947 insieme ai suoi amici Robert Capa, David "Chim" Seymour, George Rodger e William Vandivert (un manipolo di "avventurieri mossi da un'etica", come amava definirli), fonda la Magnum Photos, cooperativa di fotografi destinata a diventare la più importante agenzia fotografica del mondo.



Dal 1948 al 1950 è in Estremo Oriente. Nel 1952 pubblica "Images à la sauvette", una raccolta di sue foto (con copertina, nientemeno, che di Matisse), che ha un'immediata e vastissima eco internazionale.
Nel 1955 viene inaugurata la sua prima grande retrospettiva, che farà poi il giro del mondo, al Musée des Arts Décoratifs di Parigi.



Dopo una serie di viaggi (Cuba, Messico, India e Giappone), dal 1966 si dedica progressivamente sempre più al disegno.
Innumerevoli, in questi anni, sono i riconoscimenti ricevuti, così come le esposizioni organizzate e le pubblicazioni che in tutto il mondo hanno reso omaggio alla sua straordinaria produzione di fotografo e di pittore.




Dal 1988 il Centre National de la Photographie di Parigi ha istituito il Gran Premio Internazionale di Fotografia, intitolandolo a lui.
Poco prima di raggiungere i 96 anni, è morto in Francia nell’Agosto 2004
 
 
 
 
fonti dal web biografieonline.it
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