sabato 24 novembre 2012

"Bullet to the head": nuova sfida per Sylvester Stallone.

© Simona Gemelli


C'è chi dice che il suo nuovo personaggio sia il migliore che gli sia capitato di interpretare negli ultimi vent'anni. 
Sto parlando di Sylvester Stallone e del suo ultimo film "Bullet to the head" che lui stesso ha presentato in anteprima mondiale al Festival Internazionale del Film di Roma insieme al regista Walter Hill.  
Nelle vesti di un criminale tatuato e muscoloso, "Sly" è protagonista di una pellicola in perfetto stile action movie americano, dove i personaggi non muoiono mai, i proiettili sono infiniti, le macchine sono sempre di grande cilindrata e non mancano di certo le esplosioni.

Diciamo che, chioma fluente a parte, negli anni Stallone - o meglio, i suoi personaggi - ha cambiato stile ma è rimasto sempre fedele alle origini.




sabato 29 settembre 2012

DIRECTOR'S CUT: OLIVER STONE

© Simona Gemelli

Oliver Stone nasce  a New York il 15 settembre 1946, figlio dell'ebraico Lou Silverstein, agente di borsa a Wall Street, e di Jacqueline Goddet una casalinga francese cattolica.
Il cinema non è entrato subito a far parte della sua vita se non per passione. Oliver lavora come tassista poi si iscrive a Yale ma abbandona l'università per imbarcarsi su navi mercantili dirette in Vietnam in veste di insegnante. Si arruola come volontario e combatte nella guerra in Vietnam dal 1967 al 1968. Rimasto ferito due volte in battaglia, si guadagna la medaglia al vaore.
Tornato a casa, influenzato dalla Nouvelle Vague e sotto la direzione di un maestro come Martin Scorsese, ha proseguito gli studi laureandosi a New York presso la University Film School.
Inizia a lavorare come regista nel 1971 scrivendo e dirigendo il cortometraggio sperimentale 'Last Year in Vietnam'. Nel 1978 si occupa della sceneggiatura del film 'Fuga di mezzanotte'.
L'anno 1986 sarà l'anno della svolta per Oliver Stone che riesce a sfondare grazie al racconto della vicenda Richard Boyle, ostinato reporter di 'Salvador'. Nello stesso anno, ottiene i massimi riconoscimenti e la consacrazione definitiva con il film 'Platoon'.Seguiranno numerosi film di grande successo come 'Nato il 4 luglio' con Tom Cruise nel 1989. Stone si conferma un cineasta ricercato e all'avanguardia, la caratteristica distintiva dei suoi film consiste nell'uso di una moltitudine di cineprese e formati, dal VHS alle pellicole da 8mm a 70mm e in uno stile aggressivo e polemico.
Tra il 1987 e il 1991, gira il corrotto 'Wall Street' ispirandosi al padre interpretato da un superbo Michael Douglas, la spettacolare opera-inchiesta 'JFK - Un caso ancora aperto', nonchè la psichedelica biografia di Jim Morrison in 'The Doors', in cui un giovane Val Kilmer interpreta in modo stupefacente il ruolo del mito del rock.Per il suo lavoro di regista, sceneggiatore e produttore, ha ricevuto 11 candidature all'Oscar, vincendo 3 volte con 'Fuga di mezzanotte' come sceneggiatore, 'Platoon' e 'Nato il 4 luglio' come regista. Di contro è stato anche candidato ai Razzie Awards nel 2004 e come peggior regista per 'Alexander'.
Insomma si può amare alla follia, oppure, detestare a dismisura ma lui resta sempre Oliver Stone, il personaggio più contestato e discusso di Hollywood.



"La belva" di John Travolta

© Simona Gemelli                                       John Travolta Oggi


John Travolta 1977


E' l'emblema di una generazione, conosciuto dal grande pubblico con un film che ha incassato più di trecentocinquanta milioni di dollari, un fenomeno cinematografico che ha dato il via ad una serie infinita di film ispirati alla musica e alla danza.
Lui è John Travolta, 51 film all'attivo in 58 anni di vita, sex symbol dagli occhi color ghiaccio e dal sorriso inconfondibile.
Il suo ultimo film è oggi nelle sale: "Le Belve" di Oliver Stone.
Tony Manero, il ragazzo di origini italiane che vive in un sobborgo di New York, si trasforma dopo 35 anni in un viscido agente della DEA a caccia di cartelli della droga messicani.
E' interessante lo sviluppo di una carriera intensa come la sua che dal ballerino della febbre del Sabato sera e di Grease, passa all'intrigante 'American Gigolò', al romantico 'Ufficiale e gentiluomo', continuando con lo scanzonato padre della saga di 'Senti chi parla' e trasformandosi nell'intoccabile Vincent Vega, storico personaggio del film cult 'Pulp Fiction'.
Una vita piena di emozioni, salti, eventi, fatti anche tragici come la morte del figlio sedicenne. E ancora la sua a appartenenza a Scientology che ha fatto molto discutere. 
Tutti tasselli di un personaggio discusso, amato, che rappresenta un vero pilastro della storia del cinema mondiale.

venerdì 28 settembre 2012

Le Belve di Oliver Stone

© Simona Gemelli
«È una storia di sopravvivenza - afferma il regista Oliver Stone, a Roma per il lancio del suo ultimo film 'Le Belve' tratto dal romanzo omonimo di Don Winslow -. Tutti fanno il loro gioco, ma a un certo punto si ritrovano costretti a compiere un salto in un’altra dimensione. Da 40 anni gli americani devono fare i conti con il problema della droga, spesso, però, si fa confusione nel decidere chi è il nemico, i cattivi non sono quelli che la usano, ma quelli che la spacciano». 
Personaggio chiave del film il sempre amato John Travolta che con il suo riconoscibile fare sarcastico afferma: «Il potere del cartello messicano della droga è illimitato e, a differenza della mafia, non risparmia nemmeno donne e bambini. Le guerre sono sempre alimentate dal denaro, questo è l’aspetto selvaggio della società in cui viviamo. E quando c’è una crisi economica tutto peggiora, perchè si pensa che i conflitti possano risolvere la situazione, e invece non è affatto così». 
Protagonista femminile la bella Salma Hayek che lancia un messaggio forte e deciso: «Non conosco una soluzione al problema del traffico di stupefacenti, ma spero che il film serva anche a far capire che ogni volta che si acquista droga, si partecipa a uno spargimento di sangue. Più che preoccuparci della violenza al cinema , dovremmo tenere gli occhi ben aperti e cercare di dare il nostro piccolo contributo. Se non riusciamo a capire che cosa sia utile per la comunità, tutti noi possiamo diventare selvaggi». Fieramente messicana Hayek spiega di conoscere perfettamente il fenomeno delle donne manager nel mondo del narcotraffico: «Ce ne sono tante, anche con ruoli dominanti, in genere sono diverse dai maschi perchè non sono influenzate dall’ego e tendono a evitare le guerre».
Che dire... "Le Belve si nascondono tra noi".

giovedì 13 settembre 2012

ANTEPRIME CINEMA

BAD 25, Spike lee racconta la leggenda al Festival di Venezia 2012 per Photarts
 
Alle cose che non sappiamo spiegare, diamo spesso il nome “miracolo”. Le cose che sembra impossibile siano accadute davvero, diventano spesso “leggende”. Attorno a pochi uomini si è creata la leggenda; attorno a pochissimi si è diffusa l'aurea del “superuomo”.
Michael Jackson era fra questi. Assieme all'uomo, il dio: non c'è nessuno che più di lui abbia raccolto attorno a sé la religiosa ammirazione di così tanta parte di umanità. Attorno a Jackson il culto, l'idolo, il limite dichiarato impossibile da superare. Non stupiscono dunque le ombre. Come in ogni religione l'integralismo è il passo falso che supera quel confine sottile fra devozione e sconvolgimento del verbo, tanto da ritrovarsi improvvisamente avvolti nelle tenebre peggiori anziché la luce, così su Michael sono andati sfumando i confini tra finzione e realtà. Un'umanità infine persa dietro l'esigenza di protezione, l'ossessione per la perfezione e la paura che l'ultima goccia d'intimità fosse risucchiata in quel vortice di attenzioni che l'uomo solo -non il dio- non poteva certo reggere senza deteriorarsi poco a poco da dentro.
Così, quando la Sony Records propone a Spike Lee (guarda caso, un altro che viaggia al confine con l'immortalità) di celebrare i 25 anni di “Bad”, l'album della “prova del nove”, dove Michael avrebbe dovuto confermare di essere il migliore riconfermando il suo talento dopo un diamante come “Thriller”, è chiaro che questa sarebbe stato probabilmente la migliore occasione per raccontare Jackson. Se c'era un atto di amore che l'amico e ammiratore (da sempre, dai Jackson Five) poteva mettere in atto, era certamente quello di trascurare la parte “umana” di Michael Jackson e lasciare che il “chi era” venisse narrato semplicemente attraverso le sue opere, il vero specchio dell'anima della leggenda. Così Spike Lee presenta alla 69esima edizione del Festival di Venezia un travolgente film-documentario, che sfida all'impassibilità, sfida a rimanere inermi sotto l'uragano che solo Michael Jackson era in grado di scatenare, avvolto da quell'energia che lo possedeva quando saliva sul palco, cancellando di colpo tutto il sudore, il dolore, la pressione che esercitava continuamente su sé stesso, in quell'estenuante ricerca della perfezione a tutti i costi. Non si accenna neanche ad un Michael Jackson privato (in fondo, è mai stato intimamente protetta la sua esistenza?  Ha mai davvero vissuto una dimensione privata?). Tutto è dichiarato, intensamente testimoniato, dal suo lavoro: i dietro le quinte, le collaborazioni, le realizzazioni di quei “micro film” che hanno contribuito a farne il re indiscusso del pop; le testimonianze di chi ha lavorato con lui, chi ne ha condiviso la fatica e il successo; di tanti amici e collaboratori: da Mariah Carey a Quincy Jones, da Sheryl Crow a Martin Scorsese.
“Bad 25” è molto più di quanto non possa essere descritto a parole, come Michael Jackson d'altronde.
 
 
 

ANTEPRIMA CINEMA

THE MASTER, dal Festival del Cinema di venezia per Photarts
 
Paul Thomas Anderson è senza dubbio uno dei più importanti produttori cinematografici degli ultimi anni. Uno di quei registi che non ha mai sbagliato un colpo (ricordate “Boogie Night”? O “Magnolia”?) con uno stile riconoscibile che la critica ha sempre apprezzato. Per questo se gli applausi non sono fragorosi o in sala qualcuno sbadiglia più del solito subito si parla di fallimento, di colpo mancato, della “decadenza di uno dei registi americani più importanti degli ultimi tempi”. Nulla di tutto questo.
Certo, “The Master” non è sicuramente il film epico di Anderson, ma non si può dire che il pubblico e la critica non siano stati conquistati. Non come altri lavori del regista, si deduce, ma comunque già si parla di Leone d’Oro e di Coppa Volpi per la migliore interpretazione.
I protagonisti del film, presentato alla 69esima Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia, sono Philip Seymour Hoffman (attore amato da Anderson e presente spesso nei suoi film) e Joaquin Phoenix.
Siamo nell’America degli anni ’50, Freddie Quell (Phoenix) è un reduce di guerra che cerca di reinserirsi nella società, cosa non facile dato il carattere ribelle, che tra problematiche varie incontra un carismatico leader di una setta religiosa (Hoffman) con il quale vivrà un rapporto viscerale e del quale diventerà allievo. Molti i rumors nati, in primis il legame, secondo alcuni, con “Scientology” (associazione religiosa, filosofia religiosa o setta, che dir si voglia, fondata da L. Ron Hubbard nel 1954) anche se il regista ha detto chiaramente che il suo scopo principale, come in molti dei suoi lavori, è stato quello di raccontare il forte e passionale rapporto tra due persone, che nella seconda parte del film sfocia in un erotismo sottile che rende ancor più l’idea.
Un film che per molti rimane ancora da inquadrare, come anche uno degli attori che ne fa parte: Joaquin Phoenix, il quale durante la conferenza stampa ha fatto parlare di sé e di sicuro non in maniera positiva. Hanno fatto discutere, infatti, i suoi modi poco eleganti, la faccia visibilmente annoiata, le sigarette fumate nonostante il divieto e l’abbandono molteplici volte della conferenza; senza dimenticare i commenti legati al film: “Non penso che Paul mi abbia dato libertà, non so da dove provengano le nevrosi dei personaggi e neppure me ne importa”. Che Joaquin non si sia trovato bene sul set? Probabilmente non lo si potrà mai sapere, ma per avere una visione completa ed oggettiva del film, in Italia, dobbiamo aspettare l’11 gennaio, quando “The Master” uscirà nelle nostre sale distribuito da Lucky Red.
 

ANTEPRIMA CINEMA

THE ICEMAN, dal festival del Cinema di Venezia per Photarts
 
Una storia vera, un killer, centinaia di morti e ghiaccio, quello dell’animo.
“The Iceman” era tra i film più attesi di questa 69esima edizione della Mostra di Arte cinematografica, e non ha deluso le aspettative.
Un cast stellare, che si compone di attori del calibro di Michael Shannon, Winona Ryder, Ray Liotta e James Franco, per una storia vera capace di gelare le vene. Ariel Vromen ne è il regista, che dopo due film di non eccezionale successo (“RX” e “Danika”), afferma così la sua bravura.
L’inizio del film lo fa sembrare la classica storia d’amore: c’è un lui, una lei, si incontrano e si piacciono. Due ragazzi normali dove gli atteggiamenti non sempre corrispondono ai sentimenti. Lui sembra distaccato, pur non avendo occhi per lei, che dal suo canto, pur ricambiando, si mostra schiva.
Richard e Deborah però si amano, si sposano e hanno due figlie. Eppure lo sguardo di Richard Kuklinski, non mente.
C’è qualcosa di distaccato, di “freddo”, un dolore che lacera la sua anima, che non gli da pace e che ben presto prenderà il sopravvento. Un desiderio di vendetta, che decide di assecondare quando viene assoldato da da Roy DeMeo, capo di una piccola ma pericolosa famiglia mafiosa, come sicario.
Richard Kuklinski uccide, ecco cosa fa. Lo stesso distacco che c’era all’inizio della sua storia d’amore, nel mostrare i suoi sentimenti, lo ritroviamo nei suoi omicidi. Uccide senza pietà. Una doppia vita ben delineata che fa emergere tutto il suo conflitto interiore. Da un lato amorevole, affettuoso e premuroso con la moglie Deborah e le figlie, dall’altra assassino.
E’ un’ambivalenza struggente che viene marcata sempre più durante il film.
La figura della famiglia diventa così la lettura per una via di fuga. Richard sogna una casa lontana da li, come sua moglie. Condividono il sogno di una vita nuova, dove per lui, il cambiamento è il cambiamento dell’anima.
Eppure nella storia prevale la biografia, la storia è reale e si “piega” alla cronaca. Nessun pentimento, nessuna redenzione. Solo dolore.
“The Iceman” è un film crudo, violento, forte nelle immagini e nelle intenzioni. Colpisce il dramma psicologico che inevitabilmente si cela dietro le grandi tragedie, e coinvolge.
A renderlo un ottimo film, la partecipazione di attori straordinari.
Michael Shannon è un magistrale Richard Kuklinski, spietato, glaciale, senza un attimo di esitazione, che nel descrivere il suo personaggio parla di una "personalità dissociata, derivante dall'infanzia fatta di violenza e soprusi: quando il dolore è così profondo che non puoi sopportarlo, trovi un mezzo per annullare te stesso". Perfetta anche Winona Ryder, che mostra una donna fragile, perfettamente complementare al protagonista. "E' una donna che sposta la polvere sotto le coperte, pur di non vedere – afferma l’attrice - Così ho seguito il suo esempio: ho strappato via le pagine del copione che descrivevano i misfatti del marito, per calarmi ancora meglio nei panni di chi non sapeva, e non voleva sapere".
“The Iceman” ha tutti gli elementi per essere un buon film, un thriller avvincente che accoglierà numerosi consensi

ANTEPRIME CINEMA

THE RECLUTANT, dal Festival del Cinema di Venezia per Photarts
 
Dopo il successo di "Monsoon Wedding", che aveva vinto il Leone d'oro nel 2001, la regista indiana Mira Nair torna con un thriller politico, "The Reluctant Fundamentalist". Tratta dal celebre romanzo di Mohsin Hamid, tradotto in 25 lingue, la pellicola racconta la storia di un giovane pakistano, interpretato da Riz Ahmed, che fino a quel maledetto 11 settembre 2001, aveva davanti a se un brillante futuro da analista finanziario a Wall Street. Poi da quel giorno, la sua vita, come quella di tanti altri  americani, è cambiata per sempre. Ma il suo dolore non si è limitato alla tragedia che ha sconvolto il mondo del XX secolo; quella stessa America che gli aveva dato un lavoro e una vita migliore, lo ripudia, lo comincia a guardare con sospetto, continuando a perseguitarlo anche quando il giovane è costretto a far ritorno in Pakistan. Fino a quel momento la vita gli aveva sempre sorriso: un buon lavoro, l'amore per la bella e maledetta Erica, artista tormentata interpretata da una bruna Kate Hudson. Poi, la catastrofe. E niente sarà più come prima. Il film, che ha aperto la 69esima edizione della Mostra del Cinema di Venezia, è fuori concorso, ma ha ricevuto numerosi consensi ed applausi dopo le oltre due ore di programmazione.
A presentare il film al Lido di Venezia sono intervenuti la regista, Kate Hudson (tornata biondissima) e Liev Schreiber, che interpreta nel film il giornalista Bobby.
"The Reluctant Fundamentalist" è un richiamo alla globalizzazione e un'accusa forte contro tutti quei pregiudizi che ancora continuano a sopravvivere nel mondo occidentale. D'altronde Mira Nair è attenta a questo tipo di questioni sociali fin dall'inizio della sua carriera dietro la cinepresa; come lei stessa ha sottolineato: "Il vero Pakistan non è conosciuto da nessuno al mondo" e sostiene che bisognerebbe: "superare la miopia che separa oggi l'Occidente dall'Oriente". Proprio pochi giorni prima di quell'evento epocale la regista aveva vinto il Leone d'Oro, vittoria rovinata da quell'imminente tragedia; ora torna a Venezia per ricordare quei giorni terribili e per far sì che non vengano dimenticati.
 
 

ANTEPRIME CINEMA PHOTARTS

TANGO LIBRE dal Festival del cinema di Venezia per Photarts

 
Amore, passione e rigore. Cosa c’è di più intenso di un tango? Solo un amore impossibile, fatto di sguardi, di sensazioni, di contrasti.
Una donna e tre uomini, questa è la storia che si consuma dietro “Tango Libre”, il nuovo film di  Frederic Fonteyne, presentato, nella sezione Orizzonti, alla 69esima Mostra Internazionale d’Arte cinematografica di Venezia.
Il regista belga chiude così una trilogia di film dedicati interamente all’amore, iniziata con “Una relazione privata” (presentato in concorso nel 1999) e “La donna di Gilles”; film dove la forza dei sentimenti svela gli animi.
JC (François Damiens) è una guardia carceriera, con una vita piatta, senza particolari entusiasmi, ma con un’insospettabile passione per il tango, concetto di seduzione per eccellenza, nel quale sfoga la sua vita di insoddisfazione e monotonia. Durante una delle lezioni serali, incontra e si ritrova per caso a ballare con Alice (Anne Paulicevich, anche co-sceneggiatrice), che rivedrà anche il giorno dopo presso la sala visita della prigione dove lavora.
La donna è infatti li  per ben due uomini: il marito Fernand (Sergi Lopez)  e l’amante Dominic (Jan Hamenecker), amici da sempre, finiti in prigione dopo aver ucciso una guardia durante un assalto ad un portavalori.
Questa la trama di un film ben scritto e ben recitato.
“Tango Libre” non è la classica storia di un menage a trois (che in questo caso sarebbe a quattro…), è una storia imprevedibile, che mostra bene le sue carte, sorprendente ed entusiasmante.
L’intreccio è drammatico, a tratti tragicomico; una storia dove altro protagonista indiscusso è il ballo, il tango, che fa da sottotesto alla storia , svelandone i significati più profondi.
La passione, il desiderio, il tradimento. Tutti elementi che concorrono a delineare una storia che mostra la fragilità umana davanti ai sentimenti, in un intreccio dove ad averla vinta è sempre l’amore.
Ballo e amore, una semplice accoppiata capace di dar vita ai più tormentati rapporti.

I GRANDI FOTOGRAFI

HENRY CARTIER-BRESSON



 
Henri Cartier-Bresson, uno tra i più convinti puristi della fotografia è nato il 22 agosto 1908 a Chanteloup, 30 chilometri ad est di Parigi, da una famiglia alto borghese amica delle arti. Inizialmente si interessa solo di pittura (grazie soprattutto all'influenza di suo zio, artista affermato, che all'epoca considerava un po' come un padre spirituale), e diventa allievo di Jaques-Emile Blanche e di André Lhote, frequenta i surrealisti e Triade, il grande editore.
L'ansia che rode Cartier-Bresson in questo suo viaggio fra le immagini del mondo lo porta ad una curiosità insaziabile, incompatibile con l'ambiente borghese che lo circonda, di cui non tollera l'immobilismo e la chiusura, la piccolezza degli orizzonti. Nel 1935 negli USA inizia a lavorare per il cinema con Paul Strand; tiene nel 1932 la sua prima mostra nella galleria Julien Levy.



Tornato in Francia continua per qualche tempo a lavorare nel cinema con Jean Renoir e Jaques Becker, ma nel 1933 un viaggio in Spagna gli offre l'occasione per realizzare le sue prime grandi fotografie di reportage.
Ed è soprattutto nel reportage che Cartier-Bresson mette in pratica tutta la sua abilità e ha modo di applicare la sua filosofia del "momento decisivo": una strada che lo porterà ad essere facilmente riconoscibile, un marchio di fabbrica che lo distanzia mille miglia dalle confezioni di immagini celebri e costruite.




Ormai è diventato un fotografo importante. Catturato nel 1940 dai tedeschi, dopo 35 mesi di prigionia e due tentate fughe, riesce a evadere dal campo e fa ritorno in Francia nel 1943, a Parigi, dove ne fotografa la liberazione.
Qui entra a far parte dell'MNPGD, un movimento clandestino che si occupa di organizzare l'assistenza per prigionieri di guerra evasi e ricercati.




Finita la guerra ritorna al cinema e dirige il film "Le Retour". Negli anni 1946-47 è negli Stati Uniti, dove fotografa soprattutto per Harper's Bazaar.
Nel 1947 al Museum of Modern Art di New York viene allestita, a sua insaputa, una mostra "postuma"; si era infatti diffusa la notizia che fosse morto durante la guerra.
Nel 1947 insieme ai suoi amici Robert Capa, David "Chim" Seymour, George Rodger e William Vandivert (un manipolo di "avventurieri mossi da un'etica", come amava definirli), fonda la Magnum Photos, cooperativa di fotografi destinata a diventare la più importante agenzia fotografica del mondo.



Dal 1948 al 1950 è in Estremo Oriente. Nel 1952 pubblica "Images à la sauvette", una raccolta di sue foto (con copertina, nientemeno, che di Matisse), che ha un'immediata e vastissima eco internazionale.
Nel 1955 viene inaugurata la sua prima grande retrospettiva, che farà poi il giro del mondo, al Musée des Arts Décoratifs di Parigi.



Dopo una serie di viaggi (Cuba, Messico, India e Giappone), dal 1966 si dedica progressivamente sempre più al disegno.
Innumerevoli, in questi anni, sono i riconoscimenti ricevuti, così come le esposizioni organizzate e le pubblicazioni che in tutto il mondo hanno reso omaggio alla sua straordinaria produzione di fotografo e di pittore.




Dal 1988 il Centre National de la Photographie di Parigi ha istituito il Gran Premio Internazionale di Fotografia, intitolandolo a lui.
Poco prima di raggiungere i 96 anni, è morto in Francia nell’Agosto 2004
 
 
 
 
fonti dal web biografieonline.it
le immagini sono soggette a copyright

lunedì 30 luglio 2012

I GRANDI FOTOGRAFI

GIANNI BERENDO GARDIN

Nato a Santa Margherita Ligure nel 1930. È la seconda guerra mondiale che lo conduce verso la fotografia. Il suo inizio è un atto di sfida verso l'occupazione tedesca che, nell'Italia del '43, obbligava a consegnare alle questure, non solo le armi tenute nelle case, ma anche le macchine fotografiche. Lui, tredicenne, in un moto di ribellione adolescenziale, invece di far consegnare la macchina decise di andare in giro a fare foto. Uno zio ebreo, che viveva negli Stati Uniti, molto amico di Cornell Capa (figlio di Robert Capa) gli inviò un libro della Farm Security Administration (FSA). Era un reportage fotografico (tra il 1935 e il 1944), ben distante dal reportage ancora provinciale dei quotidiani italiani, che aveva l’obiettivo di testimoniare la situazione sociale ed economica degli agricoltori americani. Vi erano fotografie di Paul Carter, John Collier Jr, Jack Delano, Walker Evans, Dorothea Lange. Sono state le loro immagini a formare l’occhio di Berengo Gardin. Per caso, quando mostrò le sue foto a un amico in un bar, il redattore capo del giornale Il Borghese lo notò e gli comprò tutte le foto. Ma, se quello fu il primo "contatto", la sua carriera iniziò anni dopo.
Gli fecero da maestro le immagini dei reporter americani di Life, le stesse esperienze della Farm Security Society. Arriva a Parigi nel 1953, attratto dalle bellezze artistiche della capitale ma soprattutto dai grandi nomi della fotografia che quella città accoglieva. Resta nella capitale francese due anni, riprende ogni cosa con lo stile asciutto del reporter e senza nessuna traccia di edonismo, facendo sua la lezione dei professionisti d’oltralpe. A Parigi apprezzò Bresson, ed in generale tutti i fotografi della Magnum, e fece suo l'utilizzo del piccolo formato (Leica 35mm) per la semplicità e immediatezza d'uso.



Negli anni del Dopoguerra si trasferisce così a Venezia, dove entra a far parte del circolo fotografico La Gondola, fondato e diretto da Paolo Monti e, su invito di Italo Zannier, del Gruppo Friulano per una Nuova Fotografia. Del 1962 sono i suoi primi lavori come professionista, con i quali, abbandonato ogni interesse per la "mondanità" della fotografia di moda e pubblicitaria, si dedica definitivamente al reportage, all'indagine sociale, alla documentazione e descrizione dell'ambiente.
Grazie ai numerosi volumi per il Touring Club Italiano e per l'Istituto Geografico De Agostini, documenta gran parte delle regioni e delle città italiane e diversi paesi europei.




Racconta con fedeltà e senza mai peccare di presunzione.
Le sue composizioni del reportages in Sardegna assecondano l’andamento della terra e i gesti dei pastori, mentre le sue visioni ci restituiscono l’altra faccia della verità sociale del tempo.
Immagini di un’isola sospesa nel tempo, sguardi in bianco e nero tra realtà e memoria.



Artisticamente nato nel momento neorealista, influenzato dal realismo americano, partecipe all'evoluzione visiva della cultura fotografica di mezzo secolo, Berengo Gardin si può iscrivere nel registro di quegli autori che hanno elaborato una fotografia capace di essere notizia e ricerca, documento ed arte, strumento di analisi sociale e storica. È lui ad essere, ancora oggi, tra i fotografi italiani più conosciuti al mondo.
Con oltre cinquanta mostre personali e un centinaio di volumi pubblicati, Gianni Berengo Gardin è ormai una delle maggiori personalità della fotografia internazionale. La qualità del suo lavoro ha ottenuto i riconoscimenti della critica più prestigiosa. E' stato infatti citato, unico fotografo, da E. G. Gombrich nel suo libro The image and the Eye (Oxford 1982) e da Italo Zannier nella sua Storia della fotografia italiana (Bari 1987) come "il fotografo più ragguardevole del dopoguerra". Cecil Beaton lo ha incluso nella mostra da lui organizzata nel 1975, dedicata ai geni della fotografia dal 1839 ad oggi. Nel corso degli anni collabora con le maggiori testate nazionali e internazionali (Domus, Epoca, L'Espresso, Time, Stern, Harper's Bazaar, Vogue, Du, Le Figaro ecc.).




Il suo modo caratteristico di fotografare, il suo occhio attento al mondo e alle diverse realtà, dall'architettura al paesaggio, alla vita quotidiana, gli hanno decretato il successo internazionale e lo rendono un fotografo molto richiesto anche nel mercato della comunicazione d'immagine. Molte delle più incisive fotografie pubblicitarie utilizzate negli ultimi cinquant'anni provengono dal suo archivio. Procter&Gamble e Olivetti più volte hanno usato le sue foto per promuovere la loro immagine.



Gianni Berengo Gardin ha pubblicato oltre 150 libri di fotografia ed esposto le sue foto in centinaia di mostre che hanno celebrato il suo lavoro e la sua creatività in diverse parti del mondo: il Museum of Modern Art di New York, la George Eastman House di Rochester, la Biblioteca Nazionale di Parigi, gli Incontri Internazionali di Arles, il Mois de la Photo di Parigi, le Gallerie FNAC. Nel 1991 una sua importante retrospettiva è stata ospitata dal Museo dell'Elysée a Lausanne, e nel 1994 le sue foto sono state incluse nella mostra dedicata all'Arte Italiana al Guggenheim Museum di New York. Ad Arles, durante gli Incontri Internazionali di Fotografia, ha ricevuto l'Oskar Barnack-Camera Group Award. Nel luglio del 2005, in occasione a Milano dell’inaugurazione di FORMA, un spazio internazionale interamente dedicato alla fotografia, Gianni Berengo Gardin è stato scelto come autore per la mostra inaugurale con un’antologica sulla sua opera.




Il 18 ottobre 2008 gli è stato assegnato il premio Lucie Award alla carriera, quale massimo riconoscimento per i suoi meriti fotografici, mentre una personale in suo onore è stata allestita nell'autunno dello stesso anno a Palazzo Pichi Sforza di Sansepolcro (AR). Di notevole spessore i suoi scatti nello studio bolognese di Via Fondazza del pittore ed incisore Giorgio Morandi, ripubblicati in una raccolta uscita nel Gennaio 2009 a cura della casa editrice Charta. A Maggio 2009 all’Università Statale di Milano gli è stata conferita la Laurea honoris causa in Storia e Critica dell’Arte.
Ricordiamo che negli eventi del CCI è segnalata una mostra a lui dedicata, qui il link



Egli afferma che non smetterebbe mai di fare il fotografo per nessuna ragione al mondo. Perché crede di avercela nel sangue, la fotografia. Gli piace molto anche il rapporto con la terra. Zappare la terra, lavorarla e prendersene cura con lavori manuali. Forse perché incomincia ad essere non più tanto giovane e così gli piace fare quelle cose che prima ha trascurato. Qualche volta si domanda se non ho sbagliato tutto nella vita.
“Oggi abbiamo tutti la mania di voler accelerare la nostra vita, correndo dietro a mille cose, e perdendo il senso della pacatezza e della ponderazione”


fonti dalla rete:
wikipedia - museofotgrafia.it

lunedì 9 luglio 2012

ANSEL ADAMS

Ansel Easton Adams





Nasce a San Francisco il 20 febbraio 1902 in una zona vicina al Golden Gate Bridge, unico figlio di Charles Hitchcock Adams, un imprenditore di successo che possedeva una compagnia di assicurazioni ed una fabbrica di prodotti chimici e Olive Bray. All'età di 4 anni, in seguito al terremoto del 1906, cade e si frattura il naso, che resterà modificato nel suo profilo per tutta la vita. Non ama gli studi scolastici e nel 1914, a dodici anni, inizia a studiare pianoforte per abbandonarlo poi all'età di vent'anni circa. Nel 1916 una vacanza con la sua famiglia, segnerà per sempre la sua vita, Adams conosce lo Yosemite National Park. Era stato Abraham Lincoln 52 anni prima, nel 1864 a fare della Yosemite Valley il primo luogo degli Stati Uniti d'America ad essere stato dichiarato parco nazionale.



In occasione di quella prima gita gli viene regalata quella che fu la sua prima macchina fotografica, una Kodak Brownie, con cui Ansel Adams scatta le prime foto. La natura e la fotografia saranno da allora legate per sempre alla sua vita. La passione ambientalista traspare peraltro in tutte le sue opere, nel 1919 si iscrive al “Sierra Club”, una delle più antiche ed importanti organizzazioni ambientaliste degli U.S.A. Poco tempo prima era guarito dall'influenza chiamata spagnola che uccise 50 milioni di persone in tutto il mondo.



Nel 1927 Adams partecipa alla gita annuale del Club, nota come high trip. In quell'anno pubblica il suo primo portfolio: Parmelian prints of the high Sierra finanziato da Albert Bender conosciuto l'anno prima a Berkeley. Guadagnerà circa 4000 $. Nel 1928 all'età di 26 anni, si sposa con Virginia Best figlia del proprietario del Best's Studio che verrà ereditato dalla figlia nel 1935 alla morte del padre. Lo studio è oggi noto come Ansel Adams Gallery.



Sempre nel 1928 Adams diviene fotografo ufficiale del Sierra Club, ma non lascia la sua passione ambientalista e si dedica anche ad accompagnare le persone che partecipano alle escursioni, che a volte durano settimane, come assistente del direttore di gite. Ha 30 anni nel 1932 quando fonda il Gruppo f/64 allo scopo di riunire alcuni fotografi aderenti alla straight photography: John Paul Edwards,Imogen Cunningham, Preston Holder, Consuelo Kanaga, Alma Lavenson, Sonya Noskowiak, Henry Swift, Willard Van Dyke, ed Edward Weston. La f/64 rimandava alla minima apertura del diaframma dell'obiettivo che avrebbe consentito la massima profondità di campo e la maggiore accuratezza dei dettagli.




Nel 1934 entra nel Consiglio di Amministrazione del Sierra Club e ne resterà membro, insieme alla moglie per tutta la vita. È autore di molte prime scalate sulla Sierra Nevada. Le sue fotografie sono una testimonianza di come fossero molti di questi parchi nazionali prima degli interventi umani e dei viaggi. Il suo lavoro ha sponsorizzato molti degli scopi del Sierra Club ed ha portato le tematiche ambientali alla luce.
Le fotografie nel libro a tiratura limitata Sierra Nevada: The John Muir Trail, insieme alla sua testimonianza, hanno contribuito ad assicurare la designazione del Sequoia and Kings Canyon come parco nazionale nel 1940.




Adams fu addolorato dall'internamento dei nippo-americani che seguì l'attacco di Pearl Harbor. Gli venne permesso di visitare il Manzanar War Relocation Center nella Owens Valley, ai piedi del monte Williamson. Il saggio fotografico dapprima apparve in una mostra in un museo d'arte moderna, e più tardi fu pubblicato col titolo Born Free and Equal: Photographs of the loyal Japanese-Americans at Manzanar Relocation Center, Inyo County, California (Nati liberi e uguali: fotografie dei leali nippo-americani al centro di dislocamento Manzanar, Contea di Inyo, California).
Dedicatosi a immortalare in bianco e nero paesaggi e fenomeni naturali, nel 1946 vinse una delle tre borse di studio Guggenheim della sua carriera, ottenendo l'incarico di fotografare i Parchi nazionali americani.



Una delle sue opere più famose è Moonrise (1944; La luna sorge a Hernandez), realizzata nel New Mexico, emblematica di una straordinaria capacità di dosare la luce e far risaltare anche i più piccoli dettagli in ogni piano dell'immagine. Ad Adams si deve infatti la messa a punto del sistema a zone, che consente un controllo assoluto della gamma tonale in fase sia di esposizione sia di stampa e dà luogo a negativi molto equilibrati; inoltre, l'uso di apparecchi di grande formato montati sul treppiede gli permise di far meglio risaltare i dettagli grazie alla precisione dell'obiettivo, unita alla grana molto fine della pellicola.



Fu eletto nel 1966 membro dell'American Academy of Arts and Sciences. Nel 1980 il presidente Jimmy Carter lo insignì della medaglia presidenziale della libertà, la più alta onorificenza civile del suo paese.
Il Minarets Wilderness nell'Inyo National Forest venne ribattezzato Ansel Adams Wilderness nel 1984 in suo onore. Il monte Ansel Adams, una cima di 3.584 metri nella Sierra Nevada, prese il nome da lui nel 1985.
Morirà a Carmel-by-the-Sea, 22 aprile 1984.








Fonti dalla rete, le immagini sono soggette a copyright.
Sito ufficiale: www.anseladams.com

venerdì 6 luglio 2012

APRE LA STAGIONE AL TEATRO SISTINA DI ROMA, SEGUITA PER VOI DA PHOTARTS

Anche quest’anno Gianmario Longoni, Direttore Artistico del Sistina ha presentato il nuovo cartellone della prossima stagione. Nomi, titoli, atmosfere, sensazioni. Un pizzico di musica, una spolverata di concerti, un pugno di appuntamenti fuori programma. Ecco la ricetta che quest’anno lo Chef del Sistina ha preparato per gli spettatori. Un ricco menu che si snoda lungo l’arco di poco più di 9 mesi, da settembre a giugno. Una stagione che è sicuramente segnata dalla presenza, in prima nazionale, di quelli che si preannunciano come i titoli più interessanti del musical affiancati da grandissimi recital.
La stagione si apre il 9 ottobre con “W Zorro il Musical” il nuovo spettacolo nato dalla penna di Stefano D’orazio e con le musiche di Roby Facchinetti. Ad indossare la celebre mascherina nera sarà Michel Altieri, affiancato da Alberta Izzo nel ruolo di Cecilia.
A seguire dal 23 ottobre al 4 novembre, arriva al Sistina una coppia che ha fatto la storia della comicità in Italia: Cochi e Renato con “Quelli del Cabaret”. Uno spettacolo divertentissimo, musicale e un po’ surreale com’è, da sempre, nel loro spirito.
Un altro attore comico salirà sul palco del celeberrimo teatro, dal 6 al 25 novembre: sarà Rodolfo Laganà che interpreterà la statua di Giordano Bruno nello spettacolo “Campo De’ Fiori”.
Dal 27 novembre al 9 dicembre, invece, la polvere di fata tornerà con Manuel Frattini e il suo “Peter Pan”.
Ad allietare il pubblico nel periodo natalizio, dall’11 dicembre al 6 gennaio, è la straordinaria favola di “My Fair Lady”, interpretato da Luca Ward e Vittoria Belvedere con Aldo Ralli nel ruolo di Doolittle.
Uno spettacolo immortale che deve il suo successo a ciò che racconta, ai sorrisi che fa scaturire, alla universalità del suo linguaggio musicale.
A seguire, dall’8 al 20 gennaio, Bianca Guaccero e Francesco Venditti vestiranno i panni della strega Samantha e del marito Darrin nel musical “Vita da Strega”, tratto dal celeberrimo telefilm americano degli anni ‘70.
Dal 29 gennaio al 17 febbraio ancora un grande musical salirà sul palco del Sistina: “The Full Monty” tratto dal film che nel 1997 il film fu campione d’incassi e premio Oscar, ironizzando sulla crisi che in quegli anni colpiva l’Inghilterra. Il tema dello spettacolo, la crisi e la voglia di darsi da fare per reinventarsi, tornano di grande attualità. I protagonisti dello spettacolo saranno Paolo Calabresi, Gianni Fantoni, Sergio Muniz, Paolo Ruffini, Jacopo Sarno e Pietro Sermonti.
Un altro volto noto di questo palco è Maurizio Battista, che torna con “Oggi non è giornata”.
A chiudere questa nuova e incredibilmente ricca stagione sarà Massimo Lopez in “Varie-età” in programma dal 26 marzo. Un viaggio nelle varie-età dello spettacolo che hanno lasciato tracce indelebili nel tempo, rivisitate, con la sua proverbiale simpatia e verve.
Non mancheranno i concerti, altro caratteristica insostituibile di questo palcoscenico: Massimo Ranieri, Peppino di Capri, Amedeo Minghi e la “Settimana della musica” con i concerti di Edoardo De Crescenzo e di Gino Paoli.

GRANDI FOTOGRAFI - GERDA TARO

GERDA TARO


Gerda Taro il cui vero nome era Gerta Pohorylle, nasce da una famiglia di ebrei polacchi. Nonostante le sue origini borghesi, giovanissima entra a far parte di movimenti socialisti e lavoratori. Per questi motivi e per la sua origine ebraica l’avvento del nazismo in Germania le crea molti problemi.
Finisce in carcere in quanto attiva nel Partito Comunista tedesco e subito dopo decide di scappare con un amico a Parigi.
A Parigi conosce André Friedman, un ebreo anch'esso comunista, ungherese, che sbarca il lunario facendo il fotografo. André e Gerda si fidanzano e André le insegna ciò che sa sulla fotografia. Insieme, un po’ per sfida, un po’ per opportunità, inventarono il personaggio “Robert Capa”, un fantomatico ma celebre fotografo statunitense giunto a Parigi per lavorare in Europa. Grazie a questo curioso espediente la coppia moltiplica le proprie commesse e guadagna parecchi soldi.




Nel 1936 entrambi decidono di seguire sul campo gli sviluppi della guerra civile spagnola, guerra che inciderà parecchio sulla vita dei due. Giunti in Spagna divennero immediatamente importanti testimoni della guerra, realizzando molti reportage pubblicati in periodici come "Regards" o "Vu."
Nota fra le milizie antifasciste per la sua freschezza, coraggio ed eccezionale bellezza, rischiò sempre la vita per realizzare i propri servizi fotografici.
All’inizio il marchio "Capa-Taro" fu usato indistintamente da entrambi i fotografi. Successivamente i due divisero la 'ragione sociale' -CAPA- e André Friedman adottò definitivamente lo pseudonimo Robert Capa per sé.



Gerda realizzò, in un periodo in cui Capa era per alcuni giorni a Parigi per rapporti con le agenzie, il suo più importante reportage durante la battaglia di Brunete. All'inizio parve una grande vittoria repubblicana.
Il contrattacco franchista ribaltò presto la situazione e Gerda fu allora testimone dei selvaggi bombardamenti dell'aviazione nazionalista, scattando numerose fotografie e sempre con estremo rischio per la propria vita.
L'articolo che venne pubblicato sulla rivista “Regards”, diede un grande lustro alla reporter tedesca. Al ritorno dal fronte di Brunete, Gerda Taro perse la vita a causa di un terribile incidente.




Gerda viaggiava aggrappata al predellino esterno della vettura del generale polacco Walter Swierckinsky, colma di feriti; 'Walter' fu un noto Comandante delle Brigate Internazionali.
Ad un certo punto, degli aeroplani nazisti volarono a bassa quota sul convoglio repubblicano mitragliandolo, seminando il panico e provocando il caos fra i vari veicoli fra cui quello della reporter. Un carro armato repubblicano 'amico' urtò, nel trambusto generale, l'auto alla quale era aggrappata Gerda che cadde sotto i cingoli del tank, non morì immediatamente ma il giorno successivo dopo un’operazione effettuta in condizioni estreme nel vano tentativo di salvarle la vita, Gerda non perse conoscenza e durante i momenti di agonia, il suo pensiero andava alle amate macchine fotografiche.




Restò in vita e vigile sino all'alba del 26 luglio 1937; morì intorno alle ore 5 semplicemente "chiudendo gli occhi". Gerda aveva solo quasi 27 anni.
Il suo corpo fu traslato a Parigi e accompagnato da 200mila persone fu tumulato al Père Lachaise con tutti gli onori dovuti ad un'eroina repubblicana.
La sua tomba a Parigi, giace dimenticata nella zona di Pere Lachaise dedicata ai rivoluzionari ed alla Resistenza, vicino al noto 'Mur des Federès'.



Nel 1942 il regime collaborazionista fascista francese colluso con gli occupanti nazisti, 'censurò' l'epitaffio inciso sulla tomba di Gerda, epitaffio mai più restaurato. In oggi la tomba, date le modifiche accorse nel 1953, è accessibile da un viottolo posteriore, quindi posta "alla rovescio" rispetto a quando fu costruita.




Una leggenda del reportage di guerra, Gerda Taro, la prima donna che si è spinta sul fronte della Guerra Civile spagnola e ha lasciato lì la sua vita, a soli ventisette anni, travolta da un carro armato. È una storia molto triste quella della Taro che lascia un segno ancora più forte per le successive generazioni di donne, giornaliste e fotografe. Fino al giorno della sua morte Gerda ha rifornito le principali riviste dell’epoca di immagini sensazionali, spesso scattate insieme al suo compagno Robert.



Per amore del fronte si sono incrociate le vite dei due fotografi, ma la guerra non ha avuto pietà. Tra i due, in un primo momento, la macchina della guerra grazia Robert Capa che, dopo il secondo conflitto mondiale partecipa nel 1948 alla guerra d’indipendenza di Israele e alla guerra Francia Indocina del 1954
Il suo compagno Capa non si riprese mai più dalla morte della dolce e vivacissima Gerda, PRIMA DONNA REPORTER A MORIRE SUL LAVORO NELLA STORIA. Da allora anch'egli cercherà sempre la morte sul 'lavoro', incontrandola poi nel 1954 nella guerra di Indocina.
Un anno dopo la morte di Gerda, nel 1938, Robert Capa pubblicherà in sua memoria "Death in the Making", riunendo molte foto scattate insieme.




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