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martedì 26 ottobre 2010

Una curiosa buca per l’elemosina


I muri del centro di Roma sono pieni di epigrafi curiose, “strane”, che raccontano pezzi di storia della nostra città e che, a causa dell’incuria della gente e delle istituzioni, rischiano di essere spazzate via. Sul fianco destro della chiesa di San Gregorio della Divina Pietà (o San Gregorio a ponte Quattro Capi) c’è, ormai quasi illeggibile, la targa riportata nella foto su cui è scritto “ELEMOSINE PER POVERE ONORATE FAMIGLIE E VERGOGNOSE” corredata di buca per le offerte.

A differenza delle tante confraternite sorte a Roma con lo scopo di aiutare le più svariate categorie di poveri bisognosi di aiuto (vedove, orfani, storpi, bambini abbandonati ecc.) la Congrega­zione degli Operai della Divina Pietà si era assunta infatti il compito di assistere con discrezione nobili e borghesi che, caduti in disgrazia, non avevano nemmeno il coraggio di chiedere un aiuto. Gli Operai della Divina Pietà inizialmente erano 14, uno per ogni rione, e mendicavano sulla porta delle chiese o giravano per le botteghe per raccogliere offerte. Preferivano soccorrere il prossimo secondo il bisogno di ciascuno piuttosto che con piccole elemosine, preferivano sostenere in tutto poche famiglie che aiutarne molte in modo limitato. Erano molto solerti nel proteggere quella che oggi chiamiamo privacy delle famiglie bisognose: quattro confratelli po­tevano distribuire soccorsi senza far sapere il nome di chi li riceveva. Oltre al denaro si davano anche canapa e lino che venivano filati dalle famiglie assistite a cui andava il ricavato della vendita del prodotto finito fatta dagli Operai.

Sotto Benedetto XIII Orsini la Congregazione si trasferì nella chiesa di San Gregorio a ponte Quattro Capi, detta anche San Gregorietto per le sue piccole dimensioni, che prese quindi il nome di San Gregorio della Divina Pietà

mercoledì 13 ottobre 2010

Omaggio a San Nasone




San Nasone. Se lo cercate nel Martyrologium Romanum non ne troverete traccia.

Questo però non vuole dire che non esiste. È un santo romano a cui i romani e i turisti sono molto riconoscenti e nelle calde giornate estive è sinceramente invocato e avidamente cercato. In città si manifesta spessissimo: può apparire in mezzo a una piazza, oppure in qualche angolo nascosto della vecchia Roma; a volte non si fa vedere subito, anche perché coperto dalle onnipresenti infestanti automobili, allora emette un gorgoglio per attirare l’attenzione e invitare il passante a cercarlo. Generalmente assume la forma di un cilindro di ghisa alto più o meno un metro alla cui metà sporge una protuberanza curvilinea dalla quale fuoriesce un nettare celestiale che il nostro santo, protettore degli assetati, distribuisce a piene mani: l’acqua di Roma, la “più bbona der monno”, sempre fresca e rinfrescante, saporita, disponibile e soprattutto “gratise”! Intorno a lui, nelle calde giornate estive, gente accaldata si accalca per ricevere il suo prezioso nettare. C’è chi riempie una bottiglietta, chi beve usando un bicchiere, chi mette una mano a conca e da quella beve. C’è infine il romano verace che, con l’aria di quello che “mo’ ve faccio vede io”, tappa il foro d’uscita dell’acqua e beve dallo zampillo che esce dal forellino posto circa a metà del “nasone”. Avrete tutti capito che sto parlando della mitica fontanella romana, “Er Nasone”, un dono della nostra città a tutta la varia umanità che ci vive, ci lavora o la visita.

giovedì 7 ottobre 2010

IL FONTANONE DEL GIANICOLO


Propongo un piccolo QUIZ ai miei (pochi) lettori.

Da dove è stata scattata la foto del “Fontanone” qui riprodotta?

Ovviamente non si vince niente, sola la soddisfazione di essere tra "color che sanno”!

Beh, intanto che ci pensate vi fornisco qualche notizia in modo che quando ci passerete davanti lo guarderete meno distrattamente.

Il Fontanone del Gianicolo è stato definito un insieme di scogli dominato da animali araldici; il Drago e l’Aquila presenti nello stemma dei Borghese sono onnipresenti, perfino i pilastrini che circondano la conca hanno effigiate aquile e draghi in ordine alterno, un particolare distintivo unico: nessuna fontana romana può vantare un simile primato.

La mostra dell'Acqua Paola, conosciuta dai romani come "Fontanone del Gianicolo", fu voluta da papa Paolo V Borghese non appena eletto al soglio pontificio. Paolo V pensò di restaurare le rovine ancora esistenti dell'Acquedotto Traiano, in modo da riutilizzare le molte parti dell’acquedotto che ancora erano in piedi, e quindi ricostruire solo i tratti mancanti. L'obiettivo era riportare l'acqua a Trastevere, ma anche rifornire il Vaticano e le fontane di piazza San Pietro. I lavori furono affidati a Giovanni Fontana e ci vollero tre anni prima che l'acqua zampillasse sul Gianicolo. Il prospetto monumentale del terminale dell'acquedotto, la “Mostra”, è ugualmente opera del Fontana che si avvalse della collaborazione di Flaminio Ponzio.

Il prospetto è composto da tre ampie nicchie centrali che sono fiancheggiate da altre due minori da dove sgorga fragorosamente l'acqua che si riversa nella sottostante enorme vasca di marmo, che fu fatta aggiungere da Alessandro VIII e fu realizzata da Carlo Fontana in sostituzione delle cinque piccole conche originarie. Al di sopra si eleva l'attico sormontato da una nicchia ad arco con lo stemma del papa sorretto da due geni alati. Nell’attico è posta una lastra marmorea per commemorare l'opera del pontefice. L'iscrizione contiene però una piccola inesattezza. Si afferma che per condurre l'acqua Paola fu restaurato l'antico acquedotto dell'acqua Alsietina, cioè proveniente dal lacus Alsietinus, attuale lago di Martignano, mentre fu quello dell'acqua Traiana proveniente dal lago di Bracciano..

Le avventure della fontana furono parecchie. Quando si fece la prova d’uscita dell’acqua questa venne fuori con tale violenza che ruppe la balaustra di marmo precipitando a valle; durante l’assedio di Roma del 1849 i francesi tolsero l’acqua e gli zuavi sfruttavano la capace conca, riparata com’era dal sole, per schiacciare il “pisolino” pomeridiano, ma si ritrovarono tutti a mollo quando il comandante, temendo che i patrioti potessero sferrare un attacco passando attraverso le condutture vuote, dette l’ordine di riaprire il flusso dell’acqua.

Un’ultima curiosità. I romani furono contenti dell’acqua Paola, ma incominciarono subito a “sfotterla”: erano abituati ad avere acque ferruginose, acidule, acetose e non gradivano questa acqua che non aveva alcun sapore, serviva solo a dissetare e a lavare, per cui coniarono subito il detto “è come l’acqua Paola” per indicare una cosa che non sa di nulla.